“Pazienza…la vita é cosi

Pazienza, dal latino pati, soffrire e tollerare e dal greco πάσχειν (paskein), percepire una sensazione, positiva o negativa che sia, ed accoglierla; ma anche sopportare. Tutto questo in modo distaccato, direi tra lo stoico e l’eroico.

Pazienza, che ci richiama al tempo del nostro corpo, che nel suo graduale crescere e decadere reca in sé l’impronta della lentezza, della vulnerabilità e della mortalità. Un tempo così lontano dai miliardesimi di secondo dei computer a cui tutto sembra richiamarci: “T’ho mandato una mail … ti ho scritto un messaggio… ancora non hai risposto!”.

Pazienza, che ci insegna a rispettare il tempo intrinseco in ogni essere e in ogni oggetto: il tempo affinché un seme germogli, la pianta cresca, fiorisca e dia infine frutti; il tempo necessario a maturare una poesia, un racconto, un romanzo, un quadro ed infine a manifestarlo. “Quanto tempo ci hai messo a dipingerlo?” mi chiese una ragazza guardando una mia tela. “Due ore a comporlo, una vita per soffrirlo” le risposi.

E il Tango, in tutto questo?” mi chiederai. “Pazienza … ora ci arrivo” ti rispondo sorridendo di questo piccolo scherzo.

E’ inevitabile che il primo tango che ho rammentato sia stato quello di Francesco di Gorrindo, scelto come apertura per questo nostro incontro. Accettare ciò che è per quello che è, in questo caso un amore nato per soddisfare il proprio egoismo (che ammissione, no?!) e che si riconosce finito per sempre (o meglio, mai esistito) nel ritrovarsi di nuovo accanto diverso tempo dopo l’addio. Non è piacevole, no? Lascia un amaro nel cuore, vero?

“… Tu non sei la stessa, né io sono la stesso… Gli anni! … Vita!… Chissà cosa!… Una volta per tutte è meglio essere sinceri: io e te non possiamo tornare al passato… Abbiamo voluto stare insieme per puro egoismo e lo stesso egoismo ci mostra diversi… Pazienza… la vita è così…” [Paciencia, Tango 1937, Música: Juan D’Arienzo, Letra: Francisco Gorrindo]

Accettare ciò che si è, senza inventasi una maschera pur d’essere accettati. Certo, è fonte di sofferenza, per l’altro, per se stessi, il dover rinunciare ad un amore nella consapevolezza di non essere pronti, assumendosi di questo la responsabilità. Ma questa sincerità che porta a patire non è forse un male minore rispetto al dolore generato da un crudele inganno?

“… Non potrei prometterti di cambiare la vita che conduco, perché sono nato nottambulo e così dovrò morire. Mi attraggono le feste, i café, le ragazze e se c’è una milonga non posso trattenermi… E’ una sfortuna se oggi ti perdo, una sfortuna se sono solo. Io sono responsabile di tutto, visto che non riesco a cambiare…” [Mala suerte, Tango 1939, Música: Francisco Lomuto, Letra: Francisco Gorrindo].

Pazienza, accettando anche la perdita di tutto ciò che si è avuto: ricchezza, amore, un ruolo sociale. Cosa che è accaduta a molti in Argentina, così come in altri Paesi, per scellerate scelte di politici corrotti, crisi economiche, guerre. Come sta accadendo, a poco a poco, anche qui da noi.

“… Se solo pensassi a ciò che sono stato, non avrei neanche la forza di vivere… però so che devo dimenticare e dimentico senza protestare… Fui un gran signore, credetti in un Dio che adesso a volte mi nega il pane … Nell’oscura schiera dolente, degli uomini che hanno perso il focolare, senza bestemmiare, senza rancore, vado solo con il mio canto…” [Olvido, Tango 1935, Música: Luis Rubistein, Letra: Luis César Amadori].

Olvido, oblio, quello stato che salva dalla follia indotta da un dolore estremo, profondo, capace di uccidere anche la volontà di vivere.

Nell’oblio del Tango non si dimentica, ma si contempla ciò che è, entrando in un contatto sincero e intenso con le proprie emozioni, forse l’unica realtà vera che ci resta, al di là del sogno collettivo della vita, dal quale emergono e nel quale sfumano i nostri piccoli sogni individuali.

E se anche non abbiamo vissuto la perdita totale, almeno una volta non sarà stata la fine di un sogno d’amore a indurci ad allontanarci da tutto, a carcare, inconsapevolmente, l’oblio di cui parla il Tango?

“… Torno da terre lontane dove ieri cercavo l’oblio al mio dolore, consolazione per l’anima che ha sofferto, credendo negli inganni e nelle promesse d’amore. Dirigendomi verso l’oblio, che è un balsamo quando si soffre, me ne sono andato portando con me la mia amarezza, la crudele memoria della fortuna che in altri tempi con te credevo di vivere…” [Mi dolor, Tango 1930, Música: Carlos Marcucci, Letra: Manuel Meaños]

E’ nell’oblio, nell’abbraccio senza pensiero né giudizio delle proprie emozioni, accettazione vera, che il dolore può esprimersi e con il tempo e la pazienza, svanire.

Nella sera che moriva tra le ombre, teneramente ci siamo salutati; non hai visto la mia profonda tristezza e mentre te ne andavi abbiamo sorriso entrambi. E la desolazione, guardandoti partire, rompeva la mia povera voce d’emozione … Il sogno più felice, moriva nell’addio e il cielo si oscurò per me.… Nonostante il tempo trascorso, tu vivi sempre in me, e questi campi che ci videro insieme sorridere, mi chiedono se l’oblio mi ha guarito dall’amore per te…” [El adiós, Tango 1937, Música: Maruja Pacheco Huergo, Letra: Virgilio San Clemente]

Nell’oblio, che cura le ferite del crudele sogno collettivo della vita, v’è anche la radice della rinascita, della speranza. Nel ricorrente susseguirsi di una fine, segnata ineludibilmente da un “mai”, seguita da un oblio e poi… da un “dopo”, si sviluppa quel ciclico alternarsi, simile a quello delle stagioni, che ci distrae dal trascorrere del tempo, dall’inesorabile declino.

“… Ora che se n’è andata, ripercorrerò la solitudine, come chi va in punta di piedi sulle ossa del dolore… E l’amore e i dolori torneranno, ancora una volta per cominciare con un mai, poi un oblio e un dopo …” [Un jamás, un olvido, un después, Tango, Música: Néstor Basurto / Sergio Zabala, Letra: Alejandro Szwarcman]

Pazienza, a volte sperando che lei torni, senza crederci veramente, solo per continuare a tener viva ancora per un po’ la chimera che ci ha incantato, ci ha fatto sentire vivi e vibranti, sempre più crudelmente quanto più è giunta tardi nel nostro cammino, manifestandosi nella figura eterea di una giovane donna, che ci lusinga e ci illude di poter ritrovare quell’amore giovanile, così fresco ed intenso, ormai solo un ricordo impolverato dal tempo.

“… e tu appari, vendendo l’ultimo brandello di giovinezza, portandomi di nuovo la croce…” [Afiches, Tango, Música: Atilio Stampone, Letra: Homero Expósito]

Pazienza, altrimenti consapevoli che l’attesa sia solo un’altra forma di illusione, accettando finalmente che il pur bramato ritorno non ci sarà. Aspettare quindi non che il sogno riviva ma soltanto che il lutto interiore si consumi.

“… Aspettare, è vivere l’illusione… Tormento della fede di un amore… Bramare… Soffrire… sospeso nel tuo addio… Desiderare, sognare, morire! Perdersi nell’ombra immensa, credere che non tornerai… Questo è solo, attendere!…” [Esperar, Vals, Música: Enrique Santos Discépolo, Letra: Enrique Santos Discépolo]

Ma finché non decideremo di morire in vita, rinunciando per sempre all’unica cosa che è la vera essenza del vivere, le emozioni, ci sarà comunque un después. Torneremo a sperare ed aspettare, con pazienza, che Lei prima o poi venga a condividere ciò che per Lei abbiamo costruito: il nostro nido. E’ pur sempre un altro vulnerabile, effimero sogno, ma che almeno riempie il cuore di vivide emozioni, d’energia vitale.

Indossando il suo color di speranza, veste il campo il suo piumaggio e il vento fa vibrare le sue corde nei pascoli e nei fiori. Ho il mio piccolo ranch, sulla collina, dove cantano gli usignoli… Margherite e cespugli di rose stanno germogliando per te, perché un giorno quel nido selvaggio sarà il nostro…” [Nido gaucho, Tango 1942, Música: Carlos Di Sarli, Letra: Héctor Marcó]

© Andrea Sardi RIPRODUZIONE RISERVATA

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